Notizie biografiche
Stanislao Cannizzaro nacque a Palermo il 13 luglio 1826 da Mariano e Anna Di Benedetto, ultimo di dieci figli.
La famiglia paterna vantava una lunga fedeltà alla casa regnante: il padre, magistrato, fu direttore generale della polizia di Sicilia proprio negli anni in cui le tensioni politiche e libertarie toccarono l’acme in seguito al ritorno dei Borboni, sancito dal trattato di Vienna; e successivamente, nel 1827, rivestì la carica di presidente della Gran Corte dei Conti di Sicilia. La sorella Angelina, andata sposa al marchese Ruffo, fu dama di corte della regina.
Nella famiglia materna circolavano invece quelle idee patriotiche che non tardarono ad attecchire nello stesso Cannizzaro: dei cinque fratelli della madre due caddero nell’insurrezione di Palermo del 1860 e uno fu ucciso a Mentana nel 1867. Cannizzaro, rimasto orfano di padre in giovane età, entrò alla fine del 1836 nel collegio-convitto «Carolina Calasanzio», da cui uscì temporaneamente nel 1837 durante l’epidemia di colera che imperversò a lungo, uccidendo due suoi fratelli e attaccando gravemente lui stesso.
Ritornato nel convitto dopo una lunga convalescenza, seguì regolarmente gli studi classici distinguendosi in particolare nella matematica[1]. Uscito dal convitto nel 1841, alla età di appena 15 anni, si iscrisse alla facoltà di medicina, allora unica facoltà scientifica dell’Università di Palermo, dove rimase fino al 1845, senza peraltro conseguire alcuna laurea.
Particolare importanza nella formazione di Cannizzaro ebbe la frequenza per tre anni del corso di fisiolo gia tenuto da Michele Foderà, col quale si legò di intima amicizia, e sotto la cui direzione eseguì alcune ricerche sperimentali nella propria abitazione e in quella del maestro, mancando allora l’Università di Palermo di un laboratorio attrezzato.
Fu proprio lo studio della fisiologia a spingere Cannizzaro alla chimica, di cui apprese i rudimenti nel corso tenuto da E. Caronia nel 1842-43. Anche in questo caso la mancanza di strutture adeguate lo costrinse a tentare i primi esperimenti chimici in casa propria. Se questo ci conferma nel l’immagine di un Cannizzaro desideroso di tradurre nella sperimentazione concreta i contenuti teorici della scienza, ci spiega altresì l’impegno da lui sempre in seguito profuso nel dotare le Università in cui prestò servizio di strutture moderne e funzionali, dove gli studenti potessero esercitarsi.
Nell’autunno del 1845 partecipò a Napoli alla VII adunanza degli scienziati italiani, dove presentò nella sezione di zoologia, anatomia comparata e fisiologia, una comunicazione che suscitò l’interesse del fisico Macedonio Melloni, che gli dette utili consigli, facendolo assistere ad alcune sue ricerche e presentandolo a Raffaele Piria. Questi, che era allora il più illustre chimico italiano e che mirava a costituire presso la sua cattedra di Pisa una scuola italiana di chimica, intuì le capacità del giovane Cannizzaro, al quale offrì il posto di preparatore straordinario nel laboratorio di chimica dell’Università di Pisa, ufficio che Cannizzaro ricoprì per i due anni accademici 1845-46 e 1846-47.
Fu appunto in questi anni che Cannizzaro completò la sua formazione chimica, accanto ad allievi come Cesare Bertagnini e Sebastiano De Luca, coi quali visse una meravigliosa stagione di comune lavoro e di ideali scientifici e patriottici, sotto la guida dell’illustre maestro, personalità di grande spessore non solo accademico, ma anche umano, “affabilissimo nelle conversazioni serali, taciturno lavoratore nella giornata e severissimo giudice per qualsiasi negligenza dei preparatori”[2].
Ancora a tanta distanza di anni, nell’autobiografia redatta in occasione delle celebrazioni per il suo 70° compleanno risuona l’eco di quella felice collaborazione con Piria che resta per lui un “insuperabile modello d’ordine, di precisione e di eleganza… nell’esperimentare e nell’analizzare”[3].
Cannizzaro aveva già cominciato a lavorare ad alcune ricerche indipendenti quando la sua carriera di chimico subì una temporanea interruzione per la partecipazione alla rivolta contro i Borboni che andò maturando nell’estate del 1847, durante il suo annuale periodo di vacanza in Sicilia. Le idee antiborboniche avevano attecchito fra gran parte degli intellettuali siciliani, che accusavano la casa regnante non solo di malgoverno, ma anche di tradimento nei confronti della Sicilia, ridotta dopo il trattato di Vienna a una mera provincia del Regno di Napoli, privata dell’indipendenza fino ad allora gelosamente custodita e defraudata non solo della costituzione del 1812, che le garantiva una certa indipendenza e libertà, ma anche dell’altra antichissima del tempo degli Aragonesi.
L’opposizione alla casa dei Borboni, durata con fasi più o meno acute dal 1820 al 1860, si configurò principalmente come movimento per la creazione di uno Stato autonomo siciliano, con leggi proprie e propria costituzione, senza precise aspirazioni nazionali unitarie. E’ questo anche il carattere del moto che scoppiò nel gennaio del 1848, a cui prese parte attiva Cannizzaro, nominato ufficiale d’artiglieria nel piccolo esercito del nuovo Stato siciliano e poi eletto alla Camera dei Comuni come deputato di Francavilla.
In questa sede egli prese più volte la parola fra il 5 maggio e il 7 settembre 1848. E’ interessante ricordare come molto più tardi Cannizzaro, in una lettera a Emanuele Paternò scritta il 24 settembre 1897, mentre si preparava il volume commemorativo della rivoluzione siciliana del ’48, affermi che “l’elemento giovane del Parlamento siciliano aveva dato alla rivoluzione siciliana una direzione verso l’unità monarchica, e quella rivoluzione ebbe origine e interesse nazionale”[4].
La rivoluzione siciliana – e Cannizzaro riconfermò il concetto in un discorso del 9 gennaio 1898 davanti ai professori dell’Università di Palermo – non sarebbe così nata dal desiderio di ripristinare la costituzione di Palermo del 1812, lasciando aperta la questione del futuro inserimento della Sicilia libera e indipendente nell’Unione o Federazione italiana, bensì avrebbe avuto come sua meta finale il Regno d’Italia unito, quale poi nacque nel 1861.
Se queste tarde affermazioni di Cannizzaro non sembrano trovare un effettivo riscontro alla luce dei documenti e delle testimonianze dell’epoca, è invece chiaramente attestata la sua richiesta di una radicale riforma della costituzione del 1812, espressione del patriziato locale e ormai incapace di rispondere a nuove e più avanzate esigenze liberali. Cannizzaro propendeva esplicitamente per un maggiore coinvolgimento del “popolo” nella vita dello Stato: “uomini nuovi esigono nuovi ordinamenti”[5].
Nella sua duplice veste militare e politica Cannizzaro seppe conquistarsi la fiducia del governo rivoluzionario che lo inviò nel settembre del 1848 a Taormina per raccogliere forze cittadine contro l’avanzata delle truppe borboniche. Dopo l’armistizio del 13 settembre Cannizzaro rimase a Taormina come commissario del governo rivoluzionario siciliano.
Quando nel marzo del 1849 venne rotto l’armistizio e si dimostrò inutile ogni forma di ulteriore resistenza, Cannizzaro seguì le altre truppe rivoluzionarie nella ritirata fino a Palermo. Il suo nome venne iscritto, insieme a quello di uomini come Francesco Crispi, Vincenzo Errante, Giuseppe La Farina, nelle liste di proscrizione, per cui il 23 aprile 1849 fu costretto ad imbarcarsi sulla fregata “L’Indipendente”, lasciando l’isola alla volta di Marsiglia.
In Francia Cannizzaro rimase per più di due anni. Dopo aver soggiornato per qualche settimana nella Francia meridionale, dove visitò alcuni stabilimenti industriali, si rec ò prima a Lione e poi a Parigi. Qui, grazie ad una lettera di presentazione di Piria, si mise in rapporto con August Cahours, che gli procurò l’introduzione nel piccolo laboratorio di chimica di Michel-Eugène Chevreul, al Jardin des plantes, dove era preparatore Stanislas Clöez.
Assistette anche ad alcune sperimentazioni effettuate da Edmond Fremy nel laboratorio di Gay Lussac, attiguo a quello di Chevreul, e frequentò regolarmente le lezioni di Henri-Victor Regnault [6] sulla calorimetria, al Collège de France. Il soggiorno a Parigi procurò a Cannizzaro contatti con alcuni chimici che lavoravano nel vicino laboratorio di Jean-Baptiste Dumas: Faustino Malaguti, Eugène-Melchior Pélignot, Adolphe Wurtz, e altri.
Nel novembre del 1851 accettò, dopo qualche esitazione, la nomina a professore di fisica, chimica e meccanica nel Collegio Nazionale di Alessandria. Qui poté disporre di un piccolo lab oratorio per le dimostrazioni sperimentali delle lezioni, e per la continuazione delle ricerche iniziate in Francia. Tenne anche lezioni pubbliche serali di chimica e di meccanica elementare a cittadini e operai.
In questo periodo ripresero intensi i contatti con Piria e Bertagnini, attestati da una cospicua corrispondenza da cui traspare non solo la reciproca stima e la passione per la scienza, ma anche i comuni sentimenti patriottici. Ad Alessandria Cannizzaro rimase fino all’ottobre 1855, quando venne chiamato dal ministro della pubblica istruzione Giovanni Lanza alla cattedra di chimica dell’Università di Genova. Tale nomina rientrava in un quadro più generale che vide il conferimento a Piria della cattedra torinese e l’insediamento a Pisa di Bertagnini, al posto lasciato libero dal maestro.
Questo “movimento”, concordato dallo stesso Piria col ministro Lanza, si realizzò malgrado l’opposizione accanita degli ambienti conservatori, e in special modo di Ascanio Sobrero: da qui le continue pressioni che negli anni seguenti il Piria eserciterà su Cannizzaro perché questi produca lavori scientifici con cui sostenere l’assegnazione della cattedra genovese.
In quegli anni Cannizzaro si sente dunque puntato addosso l’occhio non solo del maestro, ma di tutta la comunità scientifica italiana, che attendeva il giovane scienziato al varco di una prova che potesse testimoniare le sue doti di chimico. La realtà era però decisamente sconfortante. A Genova Cannizzaro si scontrò con una situazione che si ripresenterà puntualmente ad ogni nuova nomina: l’assenza di strutture per la ricerca scientifica e la cronica indifferenza della burocrazia ministeriale a tali problemi.
Quando Cannizzaro giunse a Genova trovò per laboratorio “una cameraccia oscura e umida e neppure l’occorrente per le più elementari dimostrazioni sperimentali delle lezioni”[7], tanto da non poter neppure proseguire i lavori iniziati ad Alessandria.
Soltanto l’anno successivo riuscì ad ottenere un nuovo locale all’ultimo piano dell’edificio universitario, per poter continuare le proprie ricerche. La sua produzione scientifica si mantenne comunque molto scarsa fino a tutto il 1857: solo alla fine di quell’anno comparve una breve nota sulla rivista «Nuovo Cimento», unico indizio delle meditazioni di Cannizzaro poi sfociate nella stesura del suo fondamentale Sunto di un corso di filosofia chimica.
Quest’opera nasce sostanzialmente da una esigenza didattica: dalla volontà cioè di chiarire a se stesso e quindi ai propri studenti concetti e principi sui quali regnava allora la più assoluta confusione. Non è un caso che Cannizzaro, in un discorso pronunciato nel 1896, parlando del suo scritto, abbia affermato: “Io non ebbi veramente l’ambizione di proporre una riforma, non ebbi altro scopo che quello pedagogico” [8].
E sempre nello stesso discorso ricorda “la soddisfazione, dirò, anche la gioia che provai quando dopo le vacanze impiegate a preparare il mio corso potei esporre i concetti fondamentali della teoria molecolare e atomica”[9]. E’ proprio la validità didattica della sua teoria a spingerlo a comunicarne i risultati al mondo scientifico sotto forma di una lettera al collega De Luca, successore a Pisa del Bertagnini, prematuramente scomparso.
Nel «Nuovo Cimento» del maggio 1858 venne dunque pubblicata una lettera contenente il sunto delle prime otto lezioni del suo corso. L’importanza del Sunto sta nell’aver definitivamente chiarito il concetto di peso atomico, posto in corretta relazione con quello di peso molecolare e nell’aver quindi posto su salde basi tutta la teoria atomica, eliminando l’incertezza allora dominante nella definizione dei concetti fondamentali della scienza chimica.
Se nel discorso pronunciato in occasione delle onoranze per il suo 70° compleanno egli ebbe ad affermare: “Io non pretendo di essere stato un grande riformatore della scienza… ebbi soltanto la fortuna di enunciare ciò di cui indispensabilmente si sarebbe accorto chiunque in quel momento si fosse accinto ad una critica severa dello stato della scienza”[10], non bisogna però dimenticare che con le sue considerazioni poté aprire una nuova strada, ancorando su basi sperimentalme nte verificabili presupposti concettuali fino allora rimasti piuttosto nebulosi.
In questa sede è anche interessante notare come il linguaggio usato da Cannizzaro nel Sunto e poi nella Lezione sulla teoria atomica, pubblicata anch’essa nel 1858 sulla rivista «Liguria medica» e incentrata sugli stessi temi del Sunto, precisati e illustrati con vari esempi, metta chiaramente in evidenza la sua fede in un cammino della scienza lungo e faticoso, ma anche necessario e conseguenziale, che si svolge in tappe graduali e forse anche contraddittorie, ma che non può non raggiungere la meta ultima quasi per una sorta di “obbligatorietà superiore”.
Tale impostazione emerge con estrema chiarezza in un saggio pubblicato nel primo numero della «Gazzetta Chimica Italiana» del 1871 sullo sviluppo della teoria atomica nella prima metà dell’Ottocento. In queste Notizie storiche Cannizzaro traccia il graduale “cammino” della scienza inteso come “movimento” e “progresso” lungo una traiettoria che si avvicina alla meta per approssimazioni successive. E’ per questa ragione che Cannizzaro considera la “legge degli atomi”, da lui scoperta e oggi universalmente nota con il suo nome, come una semplice conseguenza delle precedenti ricerche scientifiche:
atteggiamento che non nasce da falsa modestia, ma da una convinta interpretazione della scienza come Entwicklungsgeschichte, come processo storico inarrestabile governato non dal caso, ma da una logica “superiore”[11].
Il congresso internazionale dei chimici, organizzato nel 1860 a Karlsruhe da Kekulé e Wurtz offrì a Cannizzaro la grande occasione di divulgare efficacemente le sue idee. A questo congresso che durò dal 3 al 5 settembre parteciparono circa 130 chimici di tutta Europa che si confrontarono su temi allora molto controversi. Il congresso non raggiunse tuttavia un punto di vista unitario che superasse i contrasti tra le diverse tesi. E’ però possibile cogliere un sintomo dell’interesse e dell’emozione che suscitò la teoria di Cannizzaro in una frase di Julius Lothar Meyer, che nel suo viaggio di ritorno lesse il Sunto che Angelo Pavesi, amico di Cannizzaro e professore di chimica a Pavia, aveva provveduto a far stampare in forma di opuscolo e distribuire fra i congressisti: “Sentii come se mi fossero cadute le bende dagli occhi, i dubbi svaniti e la percezione della tranquillità più sicura prese il loro posto”[12].
A Lothar Meyer va infatti il merito di aver diffuso le idee del chimico italiano nei paesi di lingua tedesca. Tuttavia rimase forte l’opposizione alle tesi di Cannizzaro: le critiche di Marcelin Berthélot[13] e della sua cerchia sono un esempio molto significativo di come fossero radicati nella comunità chimica certi convincimenti, e di quali resistenze dovesse incontrare la teoria di Cannizzaro, nonostante tutta la sua chiarezza ed evidenza.
Il 1860 fu un anno importante oltre che per Cannizzaro anche per l’Italia e la Sicilia. Nell’estate di quell’anno Garibaldi entrò a Palermo, e Cannizzaro poté tornare nell’isola natale dove rivide dopo anni di esilio la madre e le sorelle e dove iniziò quella carriera politica che lo porterà fino alla carica di vicepresidente del Senato.
Da questo momento nella vita di Cannizzaro si affiancano agli impegni scientifici e didattici quelli legati alla vita pubblica, che non costituiscono però un momento distinto e separato, quasi antitetico alla sua vocazione “teorica”, ma si uniscono a formare quella che Cerruti chiama con felice espressione la “continuità biografica di Cannizzaro, non diviso fra i suoi numerosi ruoli, ma unito nella forza (forma) della sua personalità” [14].
Dopo aver fatto parte del Consiglio di Stato straordinario, incaricato dal governo italiano di conciliare i bisogni della Sicilia con quelli della nascente nazione italiana, Cannizzaro continuò ad insegnare per un anno a Genova, avendo rifiutato la cattedra di chimica organica offertagli prima dall’Università di Pisa e poi da quella di Napoli. La sua intenzione era chiaramente quella di ritornare a Palermo e di adoperarsi per una rinascita culturale e politica della Sicilia.
Quando con R.D. 28 ottobre 1861 gli venne conferita la cattedra di chimica organica e inorganica nell’Università di Palermo [15] egli poté finalmente trasferirsi nell’isola con la moglie Enrichetta Whiters, figlia di un pastore protestante, da lui sposata nel 1857 nonostante l’opposizione della famiglia, contraria ad un matrimonio con una straniera di confessione non cattolica [16].
A Palermo trovò il laboratorio chimico nello stesso stato in cui era quando l’aveva frequentato come studente nel 1842-43, consistente cioè in alcuni armadi nei quali vi erano gli strumenti per le dimostrazioni più elementari. Dovette quindi insistere presso le autorità competenti perché venissero stanziati i fondi per la riorganizzazione del laboratorio [17].
Soltanto nel 1863 Cannizzaro riuscì ad ottenere ambienti adatti, al piano superiore dell’edificio universitario, dove poté installare un laboratorio ed una scuola pratica di analisi.
Grazie alle sue capacità didattiche Cannizzaro riuscì a fare di Palermo un centro di studi chimici in Italia, attirandovi un buon numero di giovani scienziati italiani e stranieri, fra cui Emanuele Paternò, Guglielmo Koerner, Adolf Lieben, Ugo Schiff, che hanno lasciato un nome illustre nella storia della chimica.
Particolare importanza ebbe per Cannizzaro la collaborazione con Lieben, giovane chimico viennese, nominato vicedirettore del laboratorio di chimica di Palermo e già dal 1863-64 incaricato dallo stesso Cannizzaro del corso di chimica inorganica. Nel luglio 1865 Cannizzaro riuscì a far nominare Lieben professore ordinario di chimica organica, riservando per sé la sola cattedra di chimica inorganica [18], anche in previsione dei più onerosi compiti connessi alla sua nomina a rettore (R.D. 31 ottobre 1865).
Cannizzaro poté giovarsi della proficua collaborazione con Lieben – “la sola cosa che mi compensi dell’isolamento scientifico in questa estrema parte d’Europa” [19] – fino al 1867, quando il chimico austriaco, in seguito alla disposizione ministeriale che riduceva ad una le cattedre di chimica esistenti presso ciascuna Università italiana, venne spostato a Torino, lasciando Cannizzaro unico titolare della cattedra di chimica generale a Palermo [20].
Come si può facilmente comprendere, ciò comportò per lui, oltre ad un maggiore isolamento, anche un notevole aggravio di lavoro, che lo spinse nell’agosto 1868 a chiedere di essere esonerato dall’ufficio di rettore. La sua richiesta venne accolta ed al suo posto venne nominato Giuseppe Albeggiani, preside della facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali di Palermo.
Né bisogna dimenticare che Cannizzaro, come già si è accennato, affiancò agli impegni didattici e scientifici anche varie cariche pubbliche: fu infatti consigliere comunale e assessore nella Giunta municipale e durante l’epidemia di colera del 1867 svolse un’intensa atti vità come commissario per la sanità pubblica.
Parallelamente cercò di potenziare il dibattito scientifico con la fondazione di un periodico esclusivamente dedicato alla chimica: la «Gazzetta Chimica Italiana», che apparve a Palermo nel 1871 e di cui ebbe la direzione, mentre Paternò ne fu redattore capo.
Il congiungimento di Roma all’Italia ed il conseguente trasferimento della capitale determinarono una svolta nella carriera accademica di Cannizzaro, che venne invitato a ricoprire la cattedra di chimica nell’Ateneo romano.
Le trattative intercorse nell’estate del 1872 fra Cannizzaro, che già nel 1871 era stato nominato membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, e il Ministero, retto allora dallo stesso presidente del Consiglio, Quintino Sella, amico personale di Cannizzaro, chiariscono come l’illustre chimico intendesse recarsi a Roma solo a determinate condizioni.
Cannizzaro era disposto ad accettare la cattedra di chimica organica propostagli dal ministro a condizione che “quella di chimica inorganica fosse affidata a persona al corrente della scienza”: altrimenti il suo insegnamento sarebbe rimasto “senza base o peggio sopra basi poco solide” [21]. E in quest’ottica propone la costituzione di un’unica scuola di chimica inorganica e organica e di chimica pratica con annesso laboratorio, sul modello delle università tedesche, di cui lui stesso avrebbe assunto la direzione.
Per evitare le difficoltà costantemente incontrate nella organizzazione di un efficiente gabinetto chimico, Cannizzaro insiste presso le autorità competenti perché il laboratorio di Roma venga fornito di locali adeguati, del materiale occorrente, di una dotazione annua e del personale necessario.
Le preoccupazioni di Cannizzaro si rivolgono ancora una volta alla didattica: con le condizioni da lui poste egli intende non tanto assicurare il proprio prestigio personale all’interno dell’Ateneo romano, quanto garantirsi la possibilità di esplicare un insegnamento effettivamente efficace e proficuo.
Le richieste di Cannizzaro cadevano peraltro in un momento politicamente favorevole: la fondazione di grandi Istituti di ricerca nella capitale era un’esigenza condivisa da larga parte della classe dirigente, in quanto si sposava felicemente con la costruzione di uno Stato moderno ed efficiente e con quell’accentramento amministrativo che se da un lato continuava la “piemontesizzazione” del paese, dall’altro si presentava anche come un antidoto all’oppressiva presenza clericale, ancora rimarchevole a Roma.
Non si può poi non tenere conto dell’inevitabile influsso esercitato dalle grandi capitali europee, in particolar modo da Berlino dove August Wilhelm Hofmann aveva fondato un importante Istituto, nat uralmente destinato a costituire un termine di confronto per l’organizzazione della ricerca in Italia.
In questo contesto venne emanata la legge sulla istituzione dei laboratori di chimica, fisiologia e fisica dell’Università di Roma, che consentì a Cannizzaro di poter attrezzare un Istituto efficacemente operante e rispondente alle esigenze della ricerca e della didattica.
D’altra parte la sua richiesta di poter disporre, come già a Palermo, di una abitazione all’interno dell’Istituto si collegava al desiderio di introdurre in Italia un modello non solo di ricerca, ma anche di vita di tipo anglosassone, idoneo a stabilire un contatto ancor più diretto e proficuo fra maestro e alunni.
Il nuovo Istituto sorse così nell’orto del vecchio convento di S. Lorenzo in Panisperna, dove Cannizzaro, in un quarantennio di attività didattica riuscì a creare una vera scuola chimica romana da cui uscirono scienziati come Carnelutti, Ciamician, Nasini, Villavecchia, Miolati.
A Cannizzaro, che continuò l’insegnamento fino al 1909, spetta dunque il merito di aver fondato una scuola di carattere realmente nazionale (i suoi studenti provenivano da tutte le regioni d’Italia) inserita in un contesto europeo e attenta ai nuovi sviluppi emergenti in altri paesi, primo fra tutti la Germania con cui Cannizzaro mantenne sempre rapporti privilegiati [22].
Accanto a questo respiro internazionale della scuola di Cannizzaro va anche rilevata la libertà di cui potevano godere i suoi alunni, stimolati anzi a crescere in direzioni diverse da quelle del maestro “per l’avvenire della scienza e per il decoro nazionale” [23].
In questo senso la scuola di Roma poté in effetti esplicare una funzione rilevantissima per il progresso del paese, non solo perché molti dei suoi componenti ricoprirono gran parte delle cattedre universitarie della penisola e contribuirono allo sviluppo della scienza, ma anche perché l’attività didattica di Cannizzaro mirò sempre ad aprirsi all’esterno in un’azione concreta e incisiva sulla società italiana.
Ed è in questo contesto che si colloca la sua attività pubblica, che non può essere disgiunta da quella propriamente scientifica e didattica, perché nella persona di Cannizzaro i due aspetti si muovono lungo una stessa direttiva: l’aspirazione a realizzare il progresso della scienza e della società civile.
La politica esercitò sempre su Cannizzaro una forte attrazione che non si esaurì con la partecipazione ai moti risorgimentali del 1848, ma restò viva anche durante l’esilio, ed anzi si sviluppò e rafforzò soprattutto dopo l’unificazione italiana.
Nel 1865 Cannizzaro visse la sua più intensa avventura politica proponendosi come candidato per il collegio di Palermo durante le elezioni politiche di quell’anno. La sconfitta elettorale lo indusse a non tentare più l’accesso alla Camera elettiva, tanto più che già nel 1864 era stato nominato “socio nazionale non residente” dell’Accademia delle Scienze di Torino, la cui appartenenza costituiva titolo secondo l’articolo 33 dello Statuto albertino ad entrare per nomina regia nel Senato del Regno dopo un’anzianità di sette anni.
Fu così che il 15 novembre 1871 Cannizzaro venne nominato senatore, nella categoria XVIII, quella appunto in cui erano raggruppati i membri dell’Accademia delle Scienze con sette anni di anzianità. Tuttavia anche la nomina a senatore fu fonte di una certa amarezza per Cannizzaro: lo Statuto albertino prevedeva infatti per la nomina a senatore anche una XX categoria comprendente quanti avevano illustrato la patria con servizi e meriti eminenti. Non avergliela riconosciuta significava dimenticare i suoi alti meriti di scienziato, dando alla sua nomina una portata più modesta e ristretta e negando al suo ingresso al Senato il pubblico riconoscimento dell’intera nazione.
Nella sua veste di senatore Cannizzaro si impegnò comunque in importanti battaglie politiche che lo portarono a lottare per la costruzione di uno Stato moderno, al di fuori e al di sopra di precisi “schieramenti politici”, nella convinzione di essere “un uomo isolato che esprime la sua opinione individualmente e lo fa perciò con la massima libertà” [24].
Ciò non vuol dire che Cannizzaro non abbia avuto un suo orientamento, riconducibile a posizioni liberali moderate che lo portavano a difendere contro ogni “sovvertimento” l’assetto sociale e civile costituitosi alla fine del processo di unificazione dello Stato italiano.
Il problema che si poneva a Cannizzaro era di incanalare le risorse e le potenzialità nazionali verso un ordinato sviluppo civile in cui la scienza fosse in grado di spandere i suoi benefici effetti “su tutti i rami del pubblico servizio e della privata prosperità” [25], opponendosi da un lato alle forze oscurantiste e reazionarie identificate con la teocrazia romana “pervenuta… a tessere una rete di ferro” intorno alle libertà di coscienza e dall’altro alle “idee sociali e politiche sovversive”, alle “passioni malsane” che si sono insinuate nelle “nostre popolazioni operaie”.
L’attività pubblica di Cannizzaro è dunque caratterizzata allo stesso tempo da una spinta progressista volta ad un graduale miglioramento dell’ordinamento statale e da una volontà di conservazione di quello Stato liberale attaccato da forze ritenute capaci di minarne l’unità e la compattezza. Questa circostanza, comune peraltro a larga parte della classe dirigente del tempo, induce Cannizzaro ad assumere posizioni di volta in volta “avanzate” o “reazionarie”, ma che si collocano tutte all’interno di una visione politica conformata anch’essa, come quella scientifica, alla metafora del “cammino” lento, graduale, difficile, ma sicuro e ordinato sulla strada del progresso.
In questo contesto partecipò al progetto di statalizzazione della gestione dei tabacchi, il cui monopolio era rimasto affidato fino al 1883 a una Regìa cointeressata che in cambio dell’esercizio della privativa dei tabacchi aveva anticipato al governo una somma ragguardevole con cui finanziare l’enorme debito pubblico, aggravatosi soprattutto dopo la guerra austro-prussiana.
Cannizzaro, incaricato di studiare l’ordinamento del monopolio dei tabacchi in Francia, presentò nel 1878 una relazione in cui descrisse gli ottimi risultati conseguiti oltr’alpe e la necessità di introdurre anche in Italia, sull’esempio francese, un laboratorio chimico dedito alle ricerche necessarie per una sempre migliore produzione manifatturiera e con proprio personale tecnico.
Quando nel 1886 venne istituito questo laboratorio, esso si configurò – a differenza di quanto auspicato da Cannizzaro – non già come un centro sperimentale, gestito con moderni criteri imprenditoriali, ma come un’azienda scarsamente produttiva, insoddisfacente sia per i risultati pratici che per il personale impiegato.
Anche quando il laboratorio dei tabacchi fu trasformato in laboratorio chimico delle gabelle, suddiviso in due sezioni, una riguardante i tabacchi, l’altra le analisi merceologiche agli effetti dell’applicazione della tariffa doganale di importazione, il suo funzionamento incontrò resistenze di ogni tipo perché si trovò spesso a toccare gli interessi di gruppi industriali le cui manovre speculative erano di fatto coperte dalla connivenza e dal silenzio della classe politica [26].
Un successo notevole Cannizzaro riuscì invece ad ottenerlo nel campo dell’igiene pubblica quando nel 1888 fece passare al Senato, auspice Crispi, una riforma destinata a scardinare il sistema sanitario fino allora vigente affidato all’ “empirìa spicciola degli amministratori e all’incerta cultura del singolo professionista” [27].
Venivano infatti istituiti organi statali in cui accanto ai medici erano presenti anche cultori di altri rami della scienza in modo da garantire la rappresentanza di tutti i settori tecnici coinvolti nel complesso problema dell’igiene pubblica. Questa nuova intelaiatura, comprendente al vertice un Consiglio superiore di sanità e una rete di Consigli provinciali, era dunque basata su un’ampia interdisciplinarietà che, oltre a garantire una maggiore efficienza, assicurava anche, grazie alla presenza di funzionari pubblici decentrati, la possibilità di sottrarsi alle pressioni dei notabili locali, spesso interessati a coprire l’effettiva situazione sanitaria del posto.
Ma il campo in cui esplicò maggiormente la sua azione fu quello scolastico dove espose idee assai avanzate. Chiese ad esempio maggiore libertà di scelta dei corsi per gli studenti universitari (7 giugno 1873) e una riforma degli esami di maturità sostenendo che la “deficienza in qualcuna delle materie prescritte” non significa che non sia raggiunta la “maturità intellettuale” (16 febbraio 1865).
Se ritenne opportuno mantenere i due indirizzi negli studi secondari, quello dei ginnasi-licei e quello delle scuole ed istituti tecnici, sostenne la necessità di rendere questi ultimi meglio rispondenti ai loro scopi primari, intervenendo non tanto sui programmi, quanto piuttosto nella preparazione degli insegnanti, troppo spesso superficiale e lacunosa.
Tali carenze, evidenti soprattutto nei professori di lingue moderne, lo spinsero a proporre l’istituzione di una scuola normale di lingue moderne, a fianco delle facoltà di lettere e filosofia, dove grazie alla presenza di grandi letterati stranieri potesse costituirsi un “vivajo di maestri di lingue” [28].
Accanto a questa attività che ben evidenzia gli sforzi di Cannizzaro per la costruzione di uno Stato moderno, va però anche ricordata la sua vocazione conservatrice, che lo portò ad appoggiare misure repressive nei confronti di qualsiasi forma di organizzazione di massa che potesse in prospettiva rivelarsi pericolosa per le basi borghesi dello Stato italiano.
Incapace di comprendere come fosse necessario incanalare nella vita politica quelle forze tenute per troppo tempo ai margini dello Stato, dimostrò una scarsa attenzione ai problemi sociali che affliggevano le classi subalterne: si espresse così contro riduzioni parziali della tassa sul macinato, ritenendo inopportuno privarsi di quei fondi necessari a finanziare le grandi spese pubbliche per “acquistare nel concerto europeo quell’autorità che è nostro diritto e nostro dovere”.
L’abolizione della tassa sul macinato si sarebbe anzi, a suo giudizio, ritorta sulle stesse classi povere “per il prolungamento di questo stato infermiccio, di questo stato cronico-patologico delle nostre finanze e della nostra pubblica economia” [29].
Ugualmente, durante la discussione della legge sul lavoro minorile, si oppose alla elevazione del limite di età a dieci anni, affermando che poiché “l’epoca dell’istruzione obbligatoria cessa a nove anni…è buono che il fanciullo, dopo finita l’istruzione elementare, cominci a lavorare” [30].
Anche se in Cannizzaro c’è pur sempre la convinzione di un cammino graduale della legislazione che condurrà inevitabilmente “a fare altri passi su questa via” [31], è altresì evidente il continuo anteporre ai bisogni delle classi lavoratrici il progresso della nazione, le esigenze dell’industria e dei produttori.
Da qui la sua opposizione ad aumentare le indennità da corrispondersi ai lavoratori infortunati, provvedimento che considerava gravoso almeno per quel che riguardava industrie come quella dello zolfo (31 marzo 1903). Il timore di spinte eversive che potessero compromettere la solidità dello Stato risorgimentale si riflette nel rifiuto opposto da Cannizzaro ad allargare il suffragio, mantenendo fermi i requisiti dell’assolvimento della scuola dell’obbligo e anche di un piccolo censo (13 novembre 1881 e 27 novembre 1888).
Nella stessa ottica si colloca la sua richiesta di licenziare i “maestri antipatriottici” dalle scuole elementari, perché non si deve affidare “una scuola a chi non crede il patriottismo sentimento da coltivare nei giovinetti” [32].
Cannizzaro mostra così di condividere con la maggior parte della classe dirigente del tempo quella mentalità da Stato assediato, costretto a difendersi dalle opposte spinte eversive provenienti dai “rossi”, che mettevano in crisi l’unità sociale agitando lo spettro della lotta di classe, e dai “neri” che minacciavano l’unità nazionale per il loro costante riferimento al potere temporale dei papi.
In questo senso Cannizzaro è un tipico esponente di quella classe dirigente liberale che se aveva saputo realizzare l’unificazione nazionale e costruire lo Stato italiano, si era però chiusa a difesa di un ordinamento che riteneva privo di alternative.
Cannizzaro morì a Roma il 10 maggio 1910. Nel centenario della nascita, i suoi resti furono deposti, accanto a quelli della moglie, nel chiostro della chiesa di S. Domenico a Palermo, facendo però in modo che dei due coniugi l’uno riposasse in terra consacrata, e l’altra, di religione non cattolica, restasse al di fuori delle mura della chiesa.
Va infine ricordato che Cannizzaro ebbe in vita molti onori:
fu membro di numerose accademie ed associazioni scientifiche nazionali ed estere, fra le quali giova ricordare qui l’Accademia dei XL, di cui venne eletto membro nel 1865, e della quale fu presidente dal 1903 alla morte, l’Accademia dei Lincei, che lo nominò socio nazionale nel 1873, e l’Accademia di Francia, che lo elesse socio straniero nel 1894.
Giovanni Paoloni
Mauro Tosti Croce